Le giornate di Joël Dicker sono talmente zeppe di impegni che siamo costretti a sentirci mentre lui è in taxi, di ritorno da un incontro promozionale a Parigi del suo ultimo libro, La catastrofica visita allo zoo, pubblicato come gli altri da La Nave di Teseo. Per la prima volta nella sua carriera, lo scrittore da 20 milioni di copie vendute nel mondo ha sentito il bisogno di raccontare una storia che parlasse a tutti e che i genitori potessero leggere ai propri figli. «Non penso di aver deciso a tavolino di voler scrivere un libro del genere, è solo che, man mano che andavo avanti con la storia, ho capito che avevo bisogno di cambiare prospettiva. Dopo aver raccontato diverse storie in cui a parlare erano o un uomo o una donna, a questo giro ho scelto di adottare il punto di vista di una bambina che poteva offrire un nuovo modo di vedere il mondo», racconta Joël Dicker, sorriso affabile, sguardo intenso e forte di uno dei suoi (tanti) traguardi: quello di essere stato lo scrittore straniero più letto in Italia nel 2024 grazie al suo penultimo romanzo Un animale selvaggio.
La emoziona ancora raggiungere questi record o non ci fa più caso?
«Scherza? L'emozione che provo è davvero speciale non solo perché l'Italia occupa da sempre un posto particolare nel mio cuore, ma anche perché pensare che i lettori ti abbiano scelto tra tantissime alternative è una cosa che mi commuove. Sono profondamente grato al pubblico italiano per tutto l'amore che mi ha trasmesso e a cui, lo dico sinceramente, non ci si abitua mai».
Con questo nuovo romanzo spariglia le carte: nessun omicidio su cui indagare e nessun crimine da sventare.
«Mi piaceva l'idea che una bambina potesse condurci all'interno di un'investigazione senza un crimine. Con i tempi che viviamo, penso di aver sentito il bisogno di scrivere un libro che potesse regalare un sorriso ma anche far riflettere».
Teme che i suoi lettori più puri possano sentirsi traditi da questo cambio di rotta?
«No, anche perché, pur non raccontando di un crimine, penso di aver messo le basi per una storia che il lettore ha voglia di scoprire arrivando a leggerla fino alla fine. Credo che i miei lettori non dovrebbero soffermarsi troppo sulla presenza o meno di un'atmosfera da thriller, ma sul cuore del racconto: sono grato ai lettori italiani per aver premiato Un animale selvaggio lo scorso anno ma, da scrittore, penso che sia anche giusto provare a percorrere nuove strade, anche per non rischiare di ripetere più volte uno schema solo perché funziona. L'importante, per me, è sempre creare qualcosa di autentico».
Nel libro scrive: «Una catastrofe non viene mai all’improvviso: è il risultato di una serie di piccole scosse che quasi non si notano ma che, a poco a poco, diventano un terremoto». La più grande catastrofe della sua vita?
«Dipende dall'età. Un errore che posso aver commesso da bambino può essermi sembrato una catastrofe e può avermi fatto sorridere una volta cresciuto. Ricordo, però, di aver scritto una lettera a una ragazzina che mi piaceva quando avevo otto anni e di averla ricevuta il giorno dopo strappata: ecco, quella è stata una piccola catastrofe per me».
Josephine, la protagonista del romanzo, è una bambina «che impara le cose troppo velocemente»: e lei?
«Anche se c'è senz'altro qualcosa di me in Josephine, penso di aver voluto sottolineare il fatto che gli adulti spesso ingigantiscono gli errori dei bambini senza rendersene davvero conto».
Che bambino era Joël Dicker?
«Molto curioso e determinato. Facevo un sacco di domande a tutti, anche se ho capito presto di avere un modo diverso di pensare e di vedere le cose. Sarà stato per questo che chiedevo agli altri cosa pensassero: volevo essere rassicurato sul fatto che ci avessi visto giusto».
Con i suoi genitori che rapporto aveva?
«Mi hanno sempre supportato e mi sono sempre stati vicino qualsiasi cosa facessi. Lo fanno ancora oggi».
La Josephine bambina da grande vuole diventare un'inventrice di parolacce: lei, invece?
«Volevo diventare un poliziotto, ma poi anche uno scrittore. Direi che ce l'ho fatta».
Tornando alle parolacce: considerando che appare sempre molto pacato, cosa gliele fa dire?
«Quando guido, per esempio, mi arrabbio parecchio. Sono molto impaziente, purtroppo. È un mio difetto».
Scrivere un romanzo non richiede pazienza?
«Richiede prendersi il proprio tempo, che è diverso. Quando scrivi un libro non devi essere paziente, ma devi semplicemente aspettare che la storia e i personaggi prendano forma».
Tornando all'infanzia, è mai stato deriso come succede a Josephine e ai suoi amici nel libro?
«Fortunatamente no. Aver avuto un fratello più grande che frequentava la mia stessa scuola è stato fondamentale perché ho sempre sentito di essere protetto da lui. Non conosco bene la realtà italiana, ma in questo periodo in Svizzera e in Francia sentiamo spesso di episodi di bullismo a scuola scatenati per colpa dei social network, e questo mi ha fatto riflettere. Sono cresciuto in un mondo in cui i social non c'erano e i ragazzi non avevano bisogno di restare connessi tutto il tempo per dare un senso alle loro giornate. Temo che questo abbia peggiorato le cose e inciso anche sul bullismo in età infantile».